Arghillà: tracce iconiche
Arghillà è periferia pura, periferia di una Reggio Calabria che è essa stessa periferia.
Nata a inizio anni Novanta come complesso di edilizia residenziale, inerpicato su una collina con vista sullo Stretto, Arghillà è un caso emblematico di fallimento delle politiche abitative che hanno generato degrado e abbandono. Una triste storia comune a molte periferie italiane.
Il mio racconto è un viaggio tra gli stradoni del quartiere, dentro i palazzi che dominano la collina e che sono protagonisti del tessuto socio-urbanistico del luogo. È una lettura dei segni che ne rivelano l’identità e lo spirito, un cammino che culmina nella memoria delle origini cancellate brutalmente dall’opera dell’uomo. Il rudere di un’antica costruzione, unica traccia di un paesaggio non più esistente, trafitto da pilastri in cemento, pali e insegne pubblicitarie.
Questo racconto è stato realizzato nel 2022 ma ha radici ben più lontane. Ero ancora piccolo quando a bordo di una Fiat 128, venivo con la mia famiglia a trovare i nonni a Rosalì. Percorrendo l’autostrada, i palazzi apparivano in lontananza come un enorme agglomerato di mattoncini. Erano così alti che non dovevo neppure sollevarmi per poterli vedere: quelle forme curve e quei motivi geometrici sulle facciate, stimolavano la mia immaginazione.
Papà diceva che un giorno avremmo potuto prendere casa lì per avvicinarci ai nonni.
Non fu così.
Ho rivisto Arghillà dopo anni ed ho sentito la necessità di raccontare ciò in cui si è trasformato il mio mancato paesaggio: un luogo molto lontano da quello che era il sogno di un bambino.
Nico Surace
Ha scritto Walt Whitman:
L’impronta del mio piede per terra sprigiona centinaia di affetti. Che si fanno beffe di ogni mio sforzo di riferirli. Sono innamorato degli spazi aperti in estensione, Di uomini che vivono tra le mandrie, o che hanno il sapore di oceani e boschi.
Di chi costruisce navi e le governa, e maneggia asce e mazze, o guida i cavalli,
Io posso mangiare e dormire con loro per intere settimane.
Gli spazi aperti in estensione, con i cui abitanti si può dormire e mangiare per intere settimane.
Nella realtà fotografata da Nico Surace, che è stata prima aspettativa, rifugio onirico e poi brutale risveglio, consapevolezza dello spesso monocromatico “Diventare grandi”, ci sono spazi aperti che servono solo come strada per arrivare a un insieme di muri, quei muri al cui interno non vivono affetti ma frustrazioni o malcelate sopportazioni.
La sua fotografia cerca, con un calibrato uso del colore, di riflettere, di mantenere in qualche modo quel barlume di speranza, quella scintilla infantile per la quale Arghillà rappresentava un obiettivo di vita familiare, ma per primo l’autore capisce che ormai è come un’arrampicata sugli specchi.
Un colore codificato, dal quale, nonostante tutto, emerge un giudizio e un sentimento. Una fotografia post-topografica che rimanda alle immagini involontariamente oniriche e fuori dal tempo degli operatori di Google Instant Street View. Ma mentre le loro istantanee sono un imparziale e veloce attraversamento di luoghi, quelle di Nico Surace sono la struggente testimonianza del fallimento di un’operazione sociale e culturale.
Il sapore del mare dello Stretto o della campagna circostante, è superfluo. Non è per tutti. E non tutti possono vederlo, ci sussurra incredulo l’autore, spargendo qua e là indizi quali tracce iconiche che svelano aspetti sociologici, identitari di questo luogo che tarpa le ali.
Chi ha deciso così è un uccello più grande, un perverso rapace che si appollaia sulla natura con pigrizia, con lo scopo di realizzare il proprio ordine.
Immaginiamo poi il paesaggio americano, quello reso celebre dai nuovi topografi a partire dagli anni sessanta e settanta del secolo scorso. Immaginiamo le lande desolate, le pompe di benzina, le Pontiac, le Mercury e altre auto, i Drive In e i cartelli con la scritta Texaco ad esempio. Un agglomerato di icone affascinante, autoctono certo, ma non particolarmente problematico, soprattutto al nostro sguardo dall’altra parte del mondo. L’esotismo americano affascina, il tipo endogeno periferico in salsa italica molto meno.
Le topografie colorate della periferia calabrese sono come dei proiettili che rimbalzano contro la stessa arma che li ha espulsi, ferendo ogni remota speranza.
Restano solo residui di un Terzo Paesaggio che perderebbe di fascino anche agli occhi di Gilles Clèment stesso.
a cura di Marco Guidi