Rannicchiato nel mio impermeabile, passeggiavo accarezzato da una fredda brezza marina lungo quel mare che infrangeva i suoi flutti sulle mie ansie. Quel tragitto era il mio rituale quando la mia agitazione diventava sempre più latente.
L’illusione di una distrazione dirottava i miei pensieri su quello che mi circondava e, senza arrovellarmi nelle mie elucubrazioni, mi calavo in un mondo dove diventavo spettatore e fruitore del linguaggio degli oggetti.
Affrontavo questo stato portandomi sempre dietro la fotocamera come se potesse aiutarmi ad espiare la causa della mia inquietudine.
Ingoiavo voracemente le ombre degli alberi che abbracciavano le facciate delle case, il ghigno di una bimba che giocava felice sulle ringhiere, le luci fioche che sagomavano la finestrella di una casa: immagini e suoni si fondevano e confondevano insieme.
Tutto quello che mi circondava diventava ossessione e una forma di masochismo faceva sì che mi abbandonassi sempre di più alle mie percezioni.
Questa ricerca spostava il centro dell’attenzione fuori della mia mente e demonizzava il mio contorno. Se non riesci a trovare dentro di te, è probabile che sia vicino a te quello che cerchi, mi dicevo conscio di prendermi in giro ma era quello di cui avevo bisogno.
Una tregua interiore mi cullava passo dopo passo e dissolveva le tensioni interne trasferendole sul mondo che man mano mi offriva sempre più spunti. Immortalavo tutto.
Ero immerso in questi contorti pensieri quando un uomo seduto su una panchina attirò subito la mia attenzione per la sua innaturale immobilità, come pietrificato a fissare un punto lontano.
Quando il tuo contorno non è un oggetto, un luogo, uno spazio ma una persona la storia diventa più intrigante ma anche più complicata. Una spasmodica tensione ti dice che devi agire.
Sembrava ibernato da quel gelido vento se non fosse per quel sigaro ancora vivo e fumante che teneva stretto tra le labbra.
Incuriosito e impertinente, mi avvicinai sedendomi al suo fianco con estrema circospezione. Non ebbe alcuna reazione.
Guardai nella sua stessa direzione cercando di cogliere l’oggetto di tanta attenzione ma non scorgevo che l’orizzonte lontano e solitario. Passarono i minuti e solo allora mi balenò che quello sguardo scrutava qualcosa che per me era invisibile in quanto nascosto nei meandri della sua mente. Non ero l’unico a cercare.
I nostri sguardi erano paralleli e aspettavo che d’improvviso qualcosa dall’esterno potesse accadere per rompere quel silenzio. Tutta la curiosità che mi aveva spinto a sedermi su quella panchina stava sparendo attimo dopo attimo e si era tramutata in uno strano senso di inadeguatezza a trovarmi in quel posto in quel momento.
L’aura di profonda intimità tra l’uomo e il mare mi faceva sentire un intruso, un ladro del suo tempo e nonostante il forte desiderio di fuggire da quella panchina, una strana forza mi bloccava fermamente quasi ad immobilizzarmi. Ero assalito dal timore che qualsiasi mio movimento avrebbe potuto turbare quello stato.
D’un tratto vidi l’estremità del sigaro muoversi e con voce roca disse: ”Un pescatore continua ad amare il proprio mare…”, si fermò per un’istante, “…sempre!”.
Si alzò mestamente e senza aver mai conosciuto il colore dei miei occhi mi lasciò alle spalle e andò via.
Lo guardai a lungo mentre si allontanava, barcollante, sulle sue stampelle unico supporto di quelle gambe un tempo forti e che, ora strisciando inerti sulla sabbia portata dal mare, lasciavano un solco che man mano si materializzava come una ferita anche dentro di me.